Giuseppe Guarino nacque dal notaio don Michele e da donna Angela Papia la mattina del 6 marzo 1827 a Montedoro, al tempo diocesi di Agrigento.
Il paese di Montedoro, sviluppatosi nel XVII secolo per iniziativa del duca Diego d’Aragona, principe di Castelvetrano, che aveva avuto dal Vicerè spagnolo la facoltà di popolare i propri feudi, viveva di agricoltura e pastorizia ed era abitato da una popolazione analfabeta al 90%.Nnel corso dell’Ottocento il paese conobbe un breve periodo di prosperità, in seguito alla scoperta di ricche miniere di zolfo. Tale periodo di splendore si concluse però a causa dell’arrivo sul mercato dello zolfo americano, estratto a costo minore di quello siciliano; buona parte della popolazione, che era cresciuta numericamente a causa della speranza di facili guadagni, preferì pertanto emigrare altrove per cercare fortuna. Montedoro, paese oggi eroso dall'emigrazione e dalla disoccupazione, fu un centro ricco di valori e tradizioni cristiane che specie nel secolo scorso fecero maturare numerose e generose vocazioni. La famiglia Guarino ne fu un esempio e Giuseppe il miglior frutto.
I Guarino non erano originari di Montedoro, dove si erano stabiliti nel 1812. La famiglia, di antiche origini francesi, si era stabilita dapprima a Lecce; un ramo si era poi stabilito in Sicilia, a Sutera, nel secolo XVI. In questa città alcuni membri della famiglia avevano anche ricoperto cariche pubbliche prestigiose.
E’ lo stesso cardinale che racconta della propria nascita e della propria famiglia in uno scritto autobiografico.
Lo stesso giorno della nascita ricevette il battesimo, con il nome di Giuseppe Giovanni Guarino, amministrato dallo zio Pietro Guarino, parroco di Montedoro. Questo zio, ricordato per i propri santi costumi, fu alla base della vocazione sacerdotale di Giuseppe Guarino.
Il padre era “un uomo di fede patriarcale e di esemplari costumi, di grande ingenuità e di non troppo comune onoratezza. Tenero per la famiglia fino all’incredibile, ma sempre sommesso alla volontà di Dio in ogni cosa”. La madre “era dotata di uno spirito angelico e proprio della dolcezza salesiana: fu sempre di semplici, innocentissimi costumi, ma di una fermezza estrema nel rigore dell’educazione verso i figli, ai quali, sin da fanciulli, contraddisse sempre la volontà. Non solea carezzarli se non quando dormivano ed innanzi a loro mostrossi sempre amabilmente seria. Soffrì grandi dolori e divenne donna di alte virtù”.
La nascita di Giuseppe era stata preceduta da quella del fratello Paolino e fu seguita da quelle di Achille, Pietro e Vincenza. Al momento della nascita le sue precarie condizioni id salute lasciavano temere per la sua sopravvivenza; la madre però era sempre tenacemente convinta che questo figlio, debole e malaticcio, sarebbe non soltanto sopravvissuto, ma sarebbe anche diventato importante.
La fanciullezza di Giuseppe trascorse in modo sereno fino a dieci anni. Nello scritto autobiografico egli stesso ricorda di non aver compiuto seriamente alcuno studio, ricevendo in famiglia una certa istruzione e trascorrendo il tempo libero giocando a celebrare la messa e a impartire benedizioni come il parroco del paese. Più di una volta, in tenera età, manifestò il desiderio di voler diventare prete.
Certamente sulla sua vocazione religiosa influirono la presenza in famiglia dello zio paterno Pietro, sacerdote, e della zia materna, Maria Teresa Papia, monaca corista cistercense. Quest’ultima in particolare, che era in casa della sorella per curare dei problemi di salute, preparò Giuseppe alla prima comunione. E’ di questo periodo l’incontro con un frate carmelitano che gli propone di entrare nel suo Ordine, ma senza risultato, anche per l’opposizione della famiglia: il fratello minore Pietro desiderava pure diventare sacerdote e “i miei … volevano un sol prete in famiglia”.
Trasferitosi con la famiglia nel piccolo paese di Bompensiere, Giuseppe fu affidato insieme al fratello Achille ad un precettore, don Diego Germani: i progressi nello studio saranno minimi, sia per la vivacità di temperamento di Giuseppe, che per la scarsa efficacia dei metodi educativi del tempo. Uno zio paterno, Giuseppe, arrivò a suggerire di non lasciargli continuare gli studi: “credevasi, e così era – annota egli stesso con umiltà – che la mia mente fosse ottusa e negata alle lettere. Frattanto era inquieto, vispo, iracondo e non aveva cura di cattivarmi una buona opinione per essere secondato nei miei desideri”.
L’essere affidato poi ad altri maestri non portò a nulla di buono. Fu la madre a capire il disagio del figlio, passato da un maestro all’altro senza profitto e scoraggiato dal confronto con i fratelli Paolino e Pietro, che invece avevano fatto grandi progressi nello studio. Passato il colera del 1837, fu mandato a studiare con il fratello Pietro ad Agrigento ma non in seminario: il padre non era contrario alla vocazione del figlio, ma non voleva che ancora giovane facesse la vestizione della talare, temendo un ripensamento dovuto all’età. Questo periodo gli permise però di fare gli studi con grande profitto.